Angela Mucciolo, Dottore in Scienze e Tecnologie delle Produzioni Animali
Claudio Mucciolo, ASL di Salerno, Dipartimento di Prevenzione – Direttore f.f. UOC Igiene e Sicurezza Alimenti di O. A.- cl.mucciolo@aslsalerno.it
I ceppi patogeni di Escherichia coli non sono tra i numericamente più diffusi, ma fra quelli che possono provocare i danni maggiori alla nostra salute provocando infezioni alimentari. Bastano quantità relativamente basse di questi batteri in un alimento (anche solo 100 batteri per grammo) per provocare nelle persone forti attacchi di colite emorragica, con abbondante sangue nelle feci. Una parte di queste infezioni, inoltre, aggredisce i reni causando problemi di insufficienza renale che possono portare, dopo la guarigione, alla dialisi dei pazienti. Nei casi più gravi si può arrivare al decesso. Tutti possono essere colpiti da un’infezione da E. coli patogeni, ma le persone più a rischio sono quelle che hanno difese immunitarie più deboli, ossia i bambini con meno di due anni di età, gli anziani, le donne in gravidanza e tutti coloro che soffrono di malattie croniche (diabete, patologie del fegato o del cuore), che per questo hanno difese immunitarie meno efficienti.
Cerchiamo di capire meglio cosa sono gli Stec o Ehec? In inglese sono gli acronimi di “Shiga-Toxin producing Escherichia coli e di EnteroHaemorrhagic Escherichia coli”. Gli Stec sono particolari ceppi di E. coli capaci di sintetizzare e rilasciare nel nostro intestino specifiche tossine che si chiamano shigatossine perché come struttura e funzione somigliano alle tossine prodotte da un altro importante patogeno alimentare (Shigella dysenteriae). Le shigatossine sono delle tossine batteriche che appartengono alla categoria delle citotossine: quando si agganciano agli specifici recettori che si trovano sulla membrana delle cellule umane, vi penetrano e le uccidono. La morte in massa delle cellule, per effetto delle shigatossine, può provocare gravi danni ai tessuti. Le shigatossine sono rilasciate dai coli Stec nell’intestino e le prime cellule a essere colpite sono quelle della mucosa intestinale che va a brandelli, sanguinando. Ciò spiega l’infiammazione intestinale (colite), la febbre e la presenza di sangue nelle feci (nei casi più gravi si parla anche di “diarrea tutto sangue e niente feci”). Assorbite attraverso la parete dell’intestino, le shigatossine possono arrivare al sangue e con esso raggiungere altri organi del corpo, ma l’azione più dannosa la esercitano sulle cellule filtratrici del rene, che vengono uccise in massa, provocando un’insufficienza renale acuta che può essere anche mortale; in casi meno gravi, dopo la guarigione del paziente i danni renali però restano, come delle cicatrici, e ciò impone il ricorso alla dialisi renale permanente o al trapianto di rene. Non sempre le infezioni da E. coli Stec degenerano in insufficienza renale, ma quando questa compare il quadro sintomatologico si aggrava di molto, tanto che i clinici hanno coniato un termine specifico per questa malattia: Seu, ossia Sindrome emolitico-uremica (in inglese Hus Hemolytic uremic syndrome). Ciò spiega perché sovente le persone che sono colpite da queste infezioni intestinali e/o renali devono ricorrere a cure mediche in ospedale, con relativo aggravio dei costi economici connessi alla loro gestione come pazienti. Le emorragie a livello intestinale sono uno dei sintomi più evidenti e spaventosi di queste infezioni ed è per questo motivo che gli stessi ceppi Stec ora citati sono stati poi chiamati anche Ehec, ossia E. coli enteroemorragici perché con la loro azione provocano emorragie e perdite di sangue. I ceppi Stec (Ehec) di E. coli sono classificati anche in base al loro sierotipo: è stato accertato che sono un centinaio i sierotipi di E. coli che possono provocare infezioni intestinali nell’uomo, ma il 90% delle forme morbose è causato da soli 10 sierotipi, i più frequenti e probabilmente anche i più aggressivi per il nostro organismo. Questi 10 sierotipi sono chiamati in inglese i “top ten” e sono capitanati da un famoso sierotipo, chiamato O157:H7.
I bovini rappresentano il più importante serbatoio naturale di STEC, frequentemente presenti anche in altri ruminanti domestici e selvatici (pecore, capre, cervi, caprioli, ecc), spesso senza causare alcun sintomo di malattia evidente.
Sporadicamente, questo agente patogeno è stato isolato da mammiferi diversi dai ruminanti, come i suini, i cavalli, i cani e i conigli d’allevamento. Tuttavia queste specie non vengono considerati veri e propri ospiti, bensì vettori colonizzati transitoriamente a seguito di un contatto con le deiezioni dei ruminanti.
Epidemiologia delle infezioni da STEC
Durante gli anni ’80, la maggior parte dei focolai di infezione da STEC O157 erano di origine alimentare e gli alimenti implicati erano per lo più prodotti a base di carne bovina non adeguatamente cotta e latte non pastorizzato. Negli ultimi vent’anni, diversi focolai sono stati associati a prodotti a basso pH come salami fermentati, maionese e yogurt. Questo fenomeno ha evidenziato la tolleranza di E. coli O157 al pH acido e la sua capacità di sopravvivere ai processi di fermentazione e di essiccazione. Inoltre, vi è un continuo aumento della notifica di focolai sostenuti da acqua e associati ad altri tipi di esposizioni legate all’ambiente. La dispersione di letame non trattato nell’ambiente può causare la contaminazione di diversi elementi, che possono poi fungere da veicoli secondari di infezioni umane.
Vi è inoltre un crescente aumento della gamma di prodotti ortofrutticoli, coltivati in campi fertilizzati con letame di ruminanti o contaminati durante le fasi di raccolta o di processazione, coinvolti in focolai epidemici.
Strategie di controllo
Produrre alimenti derivati dai ruminanti privi di contaminazione da STEC è piuttosto difficile nelle condizioni di campo. Tuttavia, è possibile minimizzare tale contaminazione tramite l’applicazione di elevati standard di igiene in tutte le fasi della catena produttiva degli alimenti.
A livello di allevamento, l’applicazione di buone prassi igieniche e di fabbricazione rimane ad oggi la soluzione migliore per ridurre la diffusione e la persistenza degli STEC nell’allevamento.
La manipolazione delle deiezioni animali è un problema di assoluta importanza, poiché gli STEC possono sopravvivere a lungo nelle feci dei bovini. Pertanto è opportuno che il letame ed i liquami di origine zootecnica vengano compostati in modo da garantire la riduzione del carico microbico.
È opportuno che gli agricoltori e i visitatori di allevamenti e aziende agricole adottino misure igieniche. In particolare, le aziende che ricevono scolaresche devono garantire che gli adulti controllino sempre i bambini, che siano facilmente disponibili strutture per il lavaggio delle mani e che le aree destinate al consumo degli alimenti siano chiaramente separate da quelle dove sono ricoverati gli animali.
Negli stabilimenti di macellazione, l’applicazione di buone prassi igieniche e di fabbricazione, nonché l’applicazione del sistema HACCP contribuiscono a ridurre la contaminazione fecale delle carcasse.
I principi generali di igiene alimentare saranno invece efficaci nel prevenire le infezioni da STEC anche a livello di processazione e vendita al dettaglio della catena alimentare.
Negli ultimi tre anni le autorità sanitarie americane ed europee hanno segnalato alcuni focolai di infezioni alimentari sicuramente indotti nell’uomo dal consumo di sfarinati, paste lievitate o prodotti da forno consumati crudi o cotti solo in modo parziale, quindi non sufficiente per inattivare i batteri che contaminavano la farina. Vista la gravità di questo potenziale pericolo per i consumatori, cerchiamo di capire meglio di cosa si tratta.
E. coli nelle farine
I ceppi Stec (Ehec) di E. coli vivono nel basso intestino dell’uomo e degli animali, in particolare nel bovino e nel suino, senza che però gli animali ne siano infetti (condizione di portatore sano). Si è stimato che i bovini portatori sani emettano con le feci quantità piuttosto limitate di coli Stec (100-1.000 batteri per grammo di feci), ma in alcuni capi portatori sembra che la quantità di coli Stec presenti nelle feci possa arrivare anche fino a 100 mila batteri per grammo, con un possibile aumento esponenziale della contaminazione ambientale. Questi bovini sono chiamati “super shedder” (eliminatori potenziati del batterio). Con le feci animali i coli Stec possono contaminare il latte crudo in fase di mungitura o le carni di bovino e suino in sede di macello. Inoltre, con i liquami freschi sparsi sui campi a scopo di fertilizzazione organica, questi stessi coli Stec possono contaminare anche i vegetali in campo (soprattutto quelli a foglia larga) e alcuni tipi di frutta che crescono a contatto con il suolo, come angurie e meloni. È quindi logico che, una volta immessi nell’ambiente, i ceppi patogeni di E. coli possano anche contaminare alimenti ritenuti “insospettabili” come i semi e le granaglie, ma i focolai di infezione alimentare segnalati a partire dal 2016, provocati con certezza dalle farine, hanno suscitato sorpresa tra gli esperti del settore perché si partiva dal concetto che i coli Stec avessero bisogno di una certa quantità di umidità per vivere, umidità che invece è molto ridotta negli alimenti essiccati o disidratati come le granaglie e i loro derivati, cioè le farine. In realtà, grazie a prove sperimentali condotte negli ultimi tre anni da vari autori, sappiamo che i ceppi Stec di E. coli possono sopravvivere anche per vari mesi in derrate molto secche come latte in polvere, spezie e, appunto, farine. Inoltre, le farine sono usate quasi sempre per produrre alimenti che poi subiscono una cottura più o meno intensa e fino a pochi anni fa si riteneva che i ceppi Stec di E. coli fossero batteri molto termosensibili. Non si riusciva quindi a capire come le farine contaminate da ceppi Stec di E. coli potessero aver provocato focolai di infezione alimentare attraverso prodotti da forno (cotti), ma anche in questo caso diverse prove sperimentali hanno fornito risultati che hanno permesso di migliorare le nostre conoscenze in merito. Negli Usa, Forghani et al. (2019) hanno inoculato sperimentalmente tre ceppi enteroemorragici di E. coli (sierogruppi O45, O121 e O145) in farina di grano per valutare quanto a lungo vi sopravvivessero i batteri a una temperatura di 23° C. Tramite analisi di laboratorio gli autori statunitensi hanno dimostrato che a temperatura ambiente i ceppi di E. coli Ehec erano ancora vivi a distanza di 168 giorni, ossia dopo oltre 5 mesi (nelle stesse condizioni Salmonella può resistere viva anche un anno).
I prodotti da forno
I ceppi patogeni Stec di E. coli sono piuttosto resistenti al calore per quanto abbiamo appreso dagli ultimi studi condotti sui prodotti da forno, ma è comunque vero che in generale i prodotti da forno sono sottoposti a trattamenti termici molto intensi e per tempi più o meno lunghi, per cui ci chiediamo come abbiano fatto le farine contaminate da E. coli Stec a fare ammalare delle persone. A questa domanda possiamo rispondere esaminando i focolai di infezione alimentare documentati finora in bibliografia. Il primo focolaio di infezione da E. coli Stec si è verificato negli Usa nel 2009. In quel caso la fonte era un impasto per biscotti pronto per essere messo in forno che ha causato 77 casi clinici, di cui 35 ospedalizzati, e 10 casi di Hus (Neil et al., 2012). Le persone si erano ammalate perché avevano consumato parte della pasta ancora cruda o non avevano cotto a sufficienza i biscotti. Il focolaio più esteso si è verificato di nuovo negli Usa tra dicembre 2015 e settembre 2016 e ha coinvolto 56 pazienti in ben 24 Stati: per 55 di essi la farina all’origine dell’episodio è risultata contaminata dal sierotipo O12, mentre in un caso il sierotipo di E. coli in causa era O26. I due ceppi erano entrambi produttori di shigatossine. L’età dei pazienti era compresa tra 1 e 95 anni con una media di 18 e il 77% dei casi erano donne. 16 pazienti hanno richiesto il ricovero in ospedale per le cure del caso, ma la sindrome Seu è comparsa in un solo paziente e non ci sono stati decessi. Molti dei pazienti affermarono che producevano sovente il pane in casa e che in genere erano abituati ad assaggiare un po’ della pasta lievitata prima di farla cuocere. Per 3 casi l’origine è stata ancora più insolita: erano tutti bambini ed avevano contratto l’infezione in ristoranti; il personale di quei ristoranti ammise poi che avevano offerto ai bambini un po’ di pasta lievitata per giocarci in attesa del pasto e il contatto con la pasta contaminata da E. coli era stato sufficiente per provocare l’infezione. Nei restanti casi si è osservato che le farine contaminate, sparse in cucina come si fa di solito quanto si usa una farina, avevano contaminato altri alimenti o superfici di lavoro, che poi avevano favorito il trasferimento dei batteri ad altri alimenti consumati evidentemente crudi (casi di contaminazione crociata).
Conclusioni
Le farine di cereali apparentemente non dovrebbero essere a rischio di trasmettere all’uomo batteri patogeni quali Salmonella o ceppi emorragici di E. coli perché sono “troppo secche” e i batteri non riescono a duplicare in substrati così poveri di acqua libera. In realtà, alcuni episodi di infezione alimentare provocati dal consumo o dal contatto con farine e paste lievitate ci confermano che il pericolo esiste e va affrontato. I ceppi di E. coli Stec (Ehec) patogeni non sono per fortuna così diffusi come Salmonella, ma possono circolare nell’ambiente provenendo dal contenuto intestinale di uomo, bovini e suini. Un’igiene di produzione carente potrebbe comportare la contaminazione delle farine in fase di molitura o in quelle successive e il fatto che le farine abbiamo tassi di umidità molto bassi non ci mette del tutto al riparo. Prove sperimentali hanno dimostrato che nelle farine i ceppi di E. coli Stec possono restare vivi anche per 5 mesi a temperatura ambiente. Nemmeno la cottura dei prodotti da forno costituisce una difesa assoluta contro questi batteri perché hanno una certa resistenza al calore; in particolare, occorre studiare bene il processo di cottura per poter dimostrare che nei prodotti si raggiungono a cuore temperature sufficienti per inattivare questi batteri. Inoltre, le indagini epidemiologiche condotte sui focolai di infezione alimentare finora accaduti hanno dimostrato che il rischio di infezione non viene dai prodotti da forno dopo cottura, quanto piuttosto dalla manipolazione della farina e delle paste lievitate da parte dei consumatori. Il rischio sta in parte nel consumare la pasta lievitata ancora cruda e in parte nel diffondere la farina in polvere su superfici di lavoro in cucina, che diventeranno poi fonti di contaminazione crociata che favoriscono il passaggio di questi batteri dalle farine ad altri alimenti che sono consumati senza ulteriore cottura. I produttori di farine non hanno molte difese da porre in atto se non quelle dell’applicazione delle corrette buone prassi igieniche di lavorazione e di manipolazione all’interno delle loro aziende, per prevenire le contaminazioni delle farine da parte di Salmonella e di E. coli Stec. Può essere utile, a mio parere, inserire nell’etichetta delle farine e delle paste lievitate precise indicazioni per un uso corretto dei prodotti, quali il cuocerli nelle corrette condizioni di tempo e temperatura, di non consumare cruda la pasta lievitata e (se possibile) di non farla toccare ai bambini piccoli e agli anziani, visto che tali soggetti rientrano nelle categorie a maggior rischio di infezione.
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